L’autonomia scolastica tra concorrenza, anarchia e libertà

Scritto da il 22 Settembre 2020

Una delle cose che più colpiscono i non addetti ai lavori che provano ad approcciare la scuola e i suoi problemi è il linguaggio. Io lo chiamo lo scuolese: termini molto specifici, come è normale che sia (la scuola è complessa, a dispetto del modo semplicistico di trattarla da parte dei media generalisti), ma anche un intrico di sigle e acronimi, spesso incomprensibili e nel complesso respingenti. In questa selva oscura di parole astruse ce n’è una che in teoria dovrebbero comprendere tutti: autonomia. Invece il termine apparentemente più semplice è anche quello che più rischia di essere frainteso perché assume significati diversi a seconda di chi ne parla. Per alcuni è sinonimo di concorrenza, per altri di anarchia, per altri ancora di libertà.

Ma allora qual è il suo vero significato? L’autonomia entra in vigore l’1 settembre 2000 ma è figlia della conferenza sulla scuola del 1990, voluta dall’allora ministro Mattarella. La relazione fu affidata a Sabino Cassese, che propone di ripensare la scuola come «servizio collettivo pubblico o nazionale, non statale», in cui «è dominante un aspetto professionale e non burocratico», e che deve essere considerata «responsabile dell’istruzione» in vece dello Stato. La scuola della Costituzione, quindi, che negli articoli 3, 33 e 34 fa riferimento alla Repubblica, non allo Stato. L’obiettivo sarà esplicitato nel DPR 275/1999: le scuole «interagiscono tra loro e con gli enti locali promuovendo il raccordo e la sintesi tra le esigenze e le potenzialità individuali e gli obiettivi nazionali del sistema di istruzione». E ancora: l’autonomia «è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti». Le istituzioni scolastiche godranno di autonomia didattica, organizzativa, di ricerca, di sperimentazione e di sviluppo. Tutti aspetti solidali l’uno con l’altro: «non si può attribuire ad una comunità scolastica autonomia didattica se non le si concede in qualche misura autonomia di organizzazione, di destinazione delle risorse ed anche di ricerca di risorse finanziarie, di scelta del personale… l’autonomia, nelle sue varie accezioni, tende a fare sistema e l’assenza di un elemento condiziona gli altri» (ancora Cassese). Tra tutti gli elementi elencati dal giurista uno è stato totalmente trascurato (la scelta del personale) e un secondo concesso, ma con moltissime limitazioni (la ricerca autonoma di risorse finanziarie). Solo la Legge 107 (la cosiddetta Buona Scuola) proverà in parte a risolvere queste carenze, ma sappiamo come è andata a finire. L’assenza di questi due fondamentali elementi ha talmente condizionato gli altri da determinare l’ambiguità che avvolge il concetto di autonomia? È una possibilità. Certamente è tra le cause delle crescenti difficoltà per l’autonomia realizzata a dare risposte alle sfide che la scuola ha di fronte, dilapidando così le aspettative generate dall’autonomia ipotizzata e ridando forza alle mai sopite nostalgie del centralismo ministeriale.

La pandemia ha rappresentato uno spartiacque per l’autonomia. E ancor di più potrebbe rappresentarlo in vista della fase che ci aspetta da settembre. Per citare l’esempio più scontato: qualora si verificassero nuovi focolai, ogni scuola dovrà in momenti diversi affrontare situazioni diverse per numero di studenti e personale messo in quarantena. L’amministrazione centrale ha l’obbligo di dire come comportarsi (i protocolli e i documenti di agosto servono a questo), ma le risposte concrete potranno arrivare solo da chi conosce le singolarità di ciascuna realtà, le risorse effettivamente a disposizione e i vincoli specifici: le scuole autonome. Al momento, però, piuttosto che palesarsi come la soluzione, da molti l’autonomia è presentata come parte del problema, ricoprendo lo scomodo ruolo di capro espiatorio. La pandemia sembra aver aumentato la diffidenza – non solo in ambito scolastico – verso tutto ciò che è indice di pluralismo e sussidiarietà. Lo spirito del tempo non era autonomista neanche prima; la paura per il virus e gli errori compiuti nell’unico ambito veramente decentrato (la sanità) hanno rafforzato questi sentimenti.

Non sono certo mancati in questi mesi cambiamenti positivi. È cambiata – per molte scuole – la percezione di se stesse e della propria relazione con l’amministrazione e l’utenza; lo stesso ministero si è collocato per lo più in una posizione rispettosa dell’autonomia, accantonando l’ossessione per le circolari esplicative; è cambiata, infine, la consapevolezza delle famiglie di cosa avvenga ogni giorno nelle classi dei loro figli, con il rischio di un ulteriore logoramento dell’autorevolezza di scuola e docenti, ma anche l’opportunità di una minore autoreferenzialità e sfiducia reciproca di scuole e famiglie. Dopo un inizio promettente però, sono venute fuori anche le resistenze di sempre, fatte ad esempio di richiami alla lettera delle norme e dei contratti o di rivendicazioni corporative. Anche da parte dell’amministrazione centrale si è alimentato a volte il sospetto di non avere chiaro il confine tra autonomia e scarico di responsabilità.

L’auspicio è che torni a prevalere la voglia di cogliere e mettere a frutto il meglio di questa esperienza, per favorire un ripensamento stabile e duraturo dell’equilibrio tra ministero e scuole autonome, tra scuola e comunità (famiglie, imprese, enti locali), tra progettazione didattica, tecnologie e architettura per l’apprendimento. Se prevarrà questo spirito e l’attenzione al risultato (garantire il il successo formativo a tutti e a ciascuno) autonomia tornerà ad essere quella parola semplice, dal significato univoco, che era nel 1990, quando fu introdotta con coraggio nel dibattito pubblico da Cassese e Mattarella. Un nuovo inizio. Con una maggiore consapevolezza di un elemento che Cassese aveva ben presente, ma che il legislatore ha poi dimenticato: «quanto ai tempi – annotava – quindici anni è il minimo per fare qualcosa di serio».

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di settembre di VITA, dedicato interamente alla riapertura delle scuole

L’autore, con Emanuele Contu, ha curato per i tipi del Mulino, il volume Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome.

Marco Campione


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