L’impronta di Nemecseck
Scritto da redazione il 8 Ottobre 2021
Sono anni che lavoro nei quartieri popolari, nelle periferie e con stranieri appena giunti dal mare, che metto in gioco le mie conoscenze di classicista trasformandole in un motivo per innamorarsi della cultura, unica via che può aiutarci a capire chi siamo.
Osservo i ragazzi: gli uni, quelli della collina deturpata, e gli altri, quelli del mare naufrago. Il dolore profondo scolpito nei loro occhi, il loro modo di ribellarsi al mondo sono del tutto dissimili e solo quei geni della politica possono stiparli insieme negli stessi quartieri! C’è una linea sottile che separa gli uni dagli altri, che porta gli uni a temere gli altri: nell’infelicità gli stranieri sono più fortunati perché sono riusciti a scappare. Per i ragazzi della collina sembra non esserci speranza: dove potrebbero fuggire? I servizi sociali li troverebbero ovunque. Nel quartiere Amarocaffè di Genova i maschi alfa camminano con la birra in mano e le loro donne ridono forte: lo studio non conta, conta essere uno di quegli uomini, una di quelle donne. Gli stranieri sono guardati male perché piacciono a quelle donne: sono disponibili Otello e possibilità di fuga dal cemento.
Gli uomini allora, e i ragazzini di conseguenza, dicono che gli stranieri rubano loro un lavoro che però loro non hanno.
O, quando ce l’hanno, lo perdono, perché significa accettare regole e rispettare orari.
Nonostante tutto questo, io la periferia la amo. C’è stato addirittura un tempo in cui un poeta mi ha definita la Madonna del quartiere Amarocaffè, una madonna che parla quella lingua.
Che cosa significa periferia? La periferia non è un luogo, è un modo di essere che spesso, se non stai attento, prende il sopravvento sulla tua persona perché l’inferno ha tante sfumature e bisogna coglierle tutte per restare in piedi.
Io sono salva perché sono una mezzosangue: padre di periferia e madre borghese. Mio padre, conosciuta mia madre, è diventato addirittura capitano perché l’amore cambia il corso della vita: ha guadagnato bene per cui io non sono vissuta in collina ma sulla costa…per poi sposarmi con uno della collina.
Osservo i ragazzi, dicevo, il loro modo di apprendere: sono diversi da come ero io alla loro età.
Per me il libro era una finestra sul tempo e sul sogno, l’antologia diveniva il veicolo per scoprire altri libri, altri sogni e, siccome a differenza dei nostri ragazzi, io non uscivo mai ma desideravo strada e ginocchia sbucciate, dovevo essere Achab per sperimentare la sfida, Lycia per provare l’amore, Bruto per affermare la mia libertà.
Sui miei vecchi libri ci sono le impronte di me ragazza, i nomi scarabocchiati a lato dei compagni amati e odiati nel tempo, lacrime e sottolineature: il libro ero io.
Il rapporto col libro era però iniziato molto tempo prima, in un appartamento lucido pieno di cristalli, attraverso la voce calda di mia nonna che mi narrava di Santa Rita, di Biancaneve e dei piedi piccoli di Nemecsek che diventava eroe a costo della vita.
Ai miei ragazzi nessuno ha mai letto libri se non a scuola, non li sentono come compagni ma li percepiscono come catene o, peggio, come il diritto di avere qualcosa dalla scuola senza il dovere di studiare: nei quartieri popolari i libri in comodato vengono quotidianamente uccisi, usati come mazze da baseball o addirittura lasciati a casa; pochissimi, anche tra chi li compra, li portano a scuola e per quei pochi illuminati che desiderano il proprio libro in luogo di quello in comodato il prezzo è alto.
La didattica ieratico-trasmissiva non funziona nei Cep e negli Zen, non funziona la lezione frontale con il libro aperto a pag.12, non funzionerà mai finché daremo note raramente controfirmate perché il materiale scolastico viene lasciato a casa, finché il tempo sarà scandito dalla voce sonnolenta del ragazzino che legge periodi quali “particolare rilievo, in vista della scelta del registro espressivo da usare, ha il ruolo reciproco degli interlocutori: se tale rapporto è simmetrico blablabla, se è asimmetrico…”, finché l’insegnante dovrà spiegare il significato lessicale di rilievo,registro, reciproco, simmetrico e asimmetrico, non ci sarà amore né per lo studio né per il libro.
Diverso è giocare sul quaderno con i vari registri linguistici che partano da una situazione contestualizzata (devi andare in bagno: comunicalo al tuo amico, alla tua ragazza, a tuo padre, alla prof., alla tua prof. di lingue) e dopo far scrivere sul quaderno i paroloni relativi al contesto.
Questo lo facciamo già tutti ma non ne siamo pienamente consapevoli.
In questo particolare contesto non serve il libro per veicolare il “sapere” ma occorre ripartire dal quaderno che-in qualche modo- impone l’attenzione e rende fisicamente l’idea di ciò che si è imparato rispetto alla pagina precedente: ai ragazzi, anche ai DSA; piace molto di più scrivere che leggere (amano le loro pagine viola, azzurre, disegnate, profumate, vissute).
Così ho iniziato a sperimentare nel tempo. La lezione è divenuta un laboratorio di studio e una palestra di attenzione; a volte affido a ciascuno un romanzo e istituisco l’ora di lettura silenziosa poi chiedo loro una restituzione delle emozioni, più avanti un’analisi, una condivisione: un romanzo intero però, non frammenti decontestualizzati di romanzi in vite già frammentate.
Nel corso di questi anni ho appreso, trasformato, inventato diversi modi di lavorare e ho notato che i risultati migliori si ottenevano laddove maggiore era la mia fatica e il mio coinvolgimento fisico; le famose recite, orrore di molti genitori-attori-insegnanti, se anche non perseguono l’obiettivo stabilito e la resa scenica da Oscar, servono molto più di altre lezioni e mettono in gioco insperate competenze; eppure la recita è uno sbattimento per l’insegnante, uno non si diverte a gestire il caos creativo o distruttivo, a danzare nella notte, a scrivere sceneggiature anziché dormire.
E se non ci spaventa la recita, perché temiamo una didattica senza libro?
Come può essere una lezione senza libro?
Così:
– entrata in aula, breve riscaldamento muscolare sul posto;
-descrizione su quaderno del tragitto casa-scuola (anche il prof.)
- nel caso di storia e geografia, il professore imposta la lezione e lavora (come gli alunni) sui testi presenti in classe o sulle fonti e i materiali che ha messo a disposizione (Euripide, Tacito, Procopio, foto di materiali archeologici, planimetrie, ricette antiche, carte storiche, carte attuali, articoli del National Geographic, Arco, Limes ma anche approfondimenti tratti da riviste e giornali di opposti punti di vista come l’Espresso, Panorama, Famiglia Cristiana), i ragazzi producono la propria pagina di studio e la condividono con la classe; alla fine il professore legge anche il suo testo, ne discute con la classe, lo rende disponibile via e-mail per chi lo desiderasse.
- Nel caso di antologia si lavora in modo alternato su ascolto e comprensione o su lettura silenziosa e comprensione; dal testo proposto parte l’analisi sulla lingua. La poesia diviene occasione di drammatizzazione, attivazione di memoria e movimento corporeo (è chiaro che se l’insegnante per primo legge la poesia sul testo anziché recitarla a memoria e drammatizzarla il lavoro si perde).
- Il latino, lo ammetto, mi piace molto di più della grammatica italiana che trovo ampollosa, prolissa e fine a se stessa; ritengo che la lingua latina-essendo i romani gente pratica come gli Americani di oggi- colleghi bene le sinapsi, aumenti il bagaglio lessicale e aiuti a comprendere la grammatica italiana: sei casi, cinque declinazioni, quattro coniugazioni e qualche ablativo assoluto (utile per spiegare le subordinate), in questi tre anni non si pretende di più.
Questo modo di lavorare porta a qualcosa, almeno alla costruzione del saper fare se non proprio alla costruzione del sé.
Certo, per una didattica senza libri occorre un’estrema pazienza infatti non tutti gli allievi posseggono la stessa capacità attentiva ma apprenderebbero meglio su libri falsamente facilitati? Un’ultima precisazione: il quaderno deve essere unico e non va suddiviso in storia, geografia, grammatica e laboratorio curriculum verticale.
Unico e diviso in giornate in modo che il ricordo del vissuto emotivo si leghi a ciò che andiamo a spiegare e le pagine vuote ci rammentano ciò che non siamo riusciti a cogliere.
Un quaderno, perché in questi quartieri i quaderni restano mentre i libri vanno restituiti.
Alessandra Giordano