Breve panegirico dell’“onomastico”, spunto per una riflessione educativa
Scritto da Teresa Iavarone il 16 Aprile 2021
Qualche giorno fa, in occasione dell’onomastico del nostro Direttore, come prevedibile, qualcuno ha lanciato messaggi di auguri in una chat di servizio. Un garbato pensiero che, tuttavia, ha sortito l’effetto di destare un po’ di sorpresa tra coloro ai quali quest’usanza, non dico non sia nota, ma è senz’altro desueta. Evidentemente, l’abitudine di celebrare l’onomastico non è da tutti, e a tutte le latitudini, avvertita. Nei giovani, poi, va perdendosi del tutto e, tuttavia, confesso che da napoletana, in senso lato da italiana del sud, ne ho avvertito dispiacenza. E allora colgo l’occasione per avventurarmi in una breve ma appassionata difesa di una festa che purtroppo sta scomparendo, e voglio farlo con qualche argomento, dal vago sentore antropologico e con accenti di folklore, che mi torna utile per sviluppare una riflessione anche in senso educativo.
Nella tradizione del sud, l’onomastico non è una festa accessoria, un optional da selezionare secondo gradimento. L’onomastico assume il valore di compleanno “sociale”, è una sorta di compleanno “pubblico” che reca in sé importanti implicazioni. Mentre il compleanno “anagrafico” si riconduce alla sfera del privato, alla celebrazione dell’evento ristretta ad un numero limitato di persone, l’onomastico sancisce il riconoscimento “dell’altro” all’interno di un orizzonte di relazioni più ampio. Gli auguri, in questa particolare circostanza, recano un messaggio il cui significato è: “mi stai a cuore, e anche se non so quando sei nato, non essendo nel novero dei tuoi legami più intimi, troverò nell’onomastico l’occasione utile per dimostrarti, con un gesto di affetto, che ti penso, che sei importante”. Ma l’onomastico non serve solo ad esprimere un riconoscimento di tipo unidirezionale.
A partire dall’atto di “riconoscimento dell’altro”, (il destinatario degli auguri) l’onomastico restituisce, in un orizzonte di senso autenticamente relazionale, anche una ricaduta sul “riconoscimento del sé” (colui che gli auguri li porge). Come? Attraverso uno scambio di doni che sottolinea la complementarietà del legame con l’altro, esprimibile in una sorta di messaggio di risposta quale: “io ci sono -perché ci sei tu che mi dai legittimazione- ti riconosco”. Tale reciprocità non è analoga a quella del compleanno, nell’onomastico il primato del dono si ribalta: mentre nel compleanno il primato è sul “dono ricevuto”, nell’onomastico il primato è sul “dono ricambiato”.
Un esempio chiarificatore, attingibile dalla tradizione partenopea e del sud, è che per l’onomastico non è consuetudine omaggiare necessariamente il festeggiato con doni materiali ma solo con gli auguri che, assumendo pregnanza simbolica, vanno appunto ricambiati con un altrettanto simbolico gesto: un piccolo dono da parte di chi li riceve. In ragione di ciò, non è insolito che il 19 marzo il “collega Giuseppe” si presenti al lavoro con un cabaret di fragranti zeppole o che il nostro Direttore, in tempi non pandemici, abbia offerto infiniti caffè nel giorno di San Vincenzo. Detto ciò, immagino si potrebbe opinare che in una società multiculturale e religiosamente inclusiva, tutto ciò non abbia più senso. Come pure, si potrebbe rilevare anche che gli auguri per l’onomastico non sempre si coniughino con il riconoscimento dell’altro in senso positivo ed autentico. Come quando il datore di lavoro viene omaggiato con gli auguri formulati non per piacere ma per obbligo, per esempio a Natale (ma anche a Pesach, o durante Ramadan, i capi antipatici sono trasversali ad ogni confessione). In linea con tale pratica, anche gli auguri per l’onomastico potrebbero risultare intrisi di ipocrisia ed anche di un pizzico di opportunismo. E tuttavia, proprio nella sua peculiare caratteristica di occasione non del tutto nota (come il Natale, appunto) ma facilmente conoscibile (nel calendario ed in internet), l’onomastico contempla anche la possibilità della sua dimenticanza (autentica o opportunamente studiata) e può tradursi in un segnale significativo per l’altro, tale da restituirgli un feedback sul suo “indice di gradimento sociale”. Una sorta di: “mi sono dimenticato di te/ti ignoro affinché tu ci possa riflettere e riposizionarti”.
Queste ultime riflessioni sulla dimenticanza, mi richiamano alla mente l’occasione in cui un onomastico, purtroppo, non fu scordato, e proprio per questo sarà necessario ricordarlo sempre anche in futuro. Quello di Don Peppino Diana, assassinato dalla camorra proprio nel giorno della sua festa. Tale giorno fu scelto, non a caso, per il valore simbolico che rappresentava, oltre alla sua morte fisica si intendeva distruggere la sua immagine identitaria, in sfregio appunto al nome. Eppure forse proprio l’imperdonabile eclatanza di quel gesto, che non si accontentava di essere solo distruttivo, ha destato maggiormente l’indignazione di tante persone le quali, in virtù di quel corpo e di quella festa violata, hanno ritrovato la forza per ripensare la propria identità sopita dalla paura, riprendendosi il proprio nome e la propria voce.
Mi rendo conto che il discorso mi ha preso la mano e che il panegirico dell’onomastico mi porterebbe a chiudere queste mie riflessioni in gloria, lanciando la proposta di tutelare questa sua tradizione nel novero dei “Beni Culturali Immateriali” dell’Unesco. E tuttavia, come annunciavo, vorrei cogliere, per il tramite di queste considerazioni, un ulteriore “dono” che offre l’onomastico, consegnandomi la possibilità di condividere con chi legge un’ultima riflessione in senso educativo e che riguarda, in particolare, i nostri giovani e i nostri studenti.
Il valore culturale ed umano di questa festa può riconoscersi nell’opportunità che offre di facilitare lo scambio di emozioni di segno positivo, nel sollecitare comportamenti oblativi, nel contribuire alla formazione di un pensiero relazionale ed empatico che in questo particolare momento di emergenza sanitaria, ma anche sociale, manca di adeguato esercizio. Difatti, l’uso pervasivo delle tecnologie e le limitazioni imposte dalla pandemia hanno portato le nostre ragazze e i nostri ragazzi a ripiegare su se stessi, visitando relazioni prevalentemente virtuali, spesso unidirezionali, comunque non favorevoli allo sviluppo della capacità di riconoscimento dell’altro e nell’altro. Allora avverto profondamente emergenziale il bisogno di ricercare, in ogni sollecitazione culturale, sociale ed educativa a nostra disposizione, compreso nel recupero di tradizioni popolari locali, ingenerosamente accantonate in nome della modernità e della apertura a falsi modelli culturali vuoti e pervasivi, l’opportunità di tenere acceso un dialogo che possa arricchire, in senso profondamente relazionale e inclusivo, la vita intrapsichica ed interpersonale, anche al fine di scongiurare dimensioni di solitudine estranianti, oramai virali, che temo forse più dei rischi della stessa pandemia.