Dante e la coscienza del limite
Scritto da redazione il 31 Marzo 2021
«O caro duca mio, che più di sette
volte m’hai sicurtà renduta e tratto
d’alto periglio che ’ncontra mi stette,
non mi lasciar»
Nell’VIII Canto dell’Inferno, Dante e Virgilio passano dal V Cerchio alla città di Dite, la rocca infernale che mille diavoli rendono invalicabile con la loro ostinata protervia:
Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?
E ’l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno,
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada,
che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai
che li ha’ iscorta sì buia contrada».
Queste ultime terribili parole precipitano Dante in un profondo sconforto e rendono conto della forza risoluta del male, che non dà scampo, allontana l’uomo dai suoi simili, lasciandolo solo ad affrontare le avversità.
Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona.
Virgilio si incammina a parlamentare con i diavoli, ma di fronte alla loro ostinazione anche le sue parole risulteranno vane. Il senso, richiamato dal ritmo sospeso delle terzine, dischiude un orizzonte di angosciosa attesa, acuita dal vacillare della fiducia che Dante aveva riposto in colui che spesso l’aveva “ tratto d’alto periglio”.
Contrariamente alle aperture della cultura classica che accoglievano il termine limes nella duplice accezione di termine, confine, come pure ingresso e passaggio, il poeta fiorentino mutua dalla cultura medioevale l’amara consapevolezza dei limiti della ragione nel cogliere l’essenza della vita: impresa impossibile in assenza di un disegno divino, unito all’ intercessione di una provvidenziale creatura celeste. Tuttavia, al di là dei vincoli religiosi e culturali che legano l’autore della Commedia al suo tempo, la qualità delle raffigurazioni psicologiche e la molteplicità delle situazioni umane, presenti nelle cantiche, forniscono interessanti spunti di riflessione. Si tratta dunque di aprire un varco filologico, tra i gioghi metafisici e le difficoltà esegetiche, e scoprire i nessi che ancor oggi legano la Divina Commedia al gusto dei contemporanei. Gramsci affermava che il compito del critico consiste nel “Sollecitare i testi e far dire loro, per amor di tesi, più di quanto essi realmente dicono”.
Lo stesso Balzac, che proprio all’ Alighieri si richiama nella sua Commedia Umana, si adopera per cogliere il “mistero delle cose” e lo fa attraverso la loro ricreazione nell’opera d’arte.
Questo è il punto: quanto sia lecito andare otre la narrazione e oltrepassare la finzione letteraria per cogliere, attualizzandola, la potenza di un messaggio poetico universale
Senz’altro la risposta risiede nel coinvolgimento emotivo che il poema suscita nel lettore moderno Nella Commedia Dante rappresenta la natura umana in tutta le sue sfaccettature, non lesinando neppure sulle proprie debolezze, fra le quali certamente campeggia la paura della solitudine, intesa come la metafora della vulnerabilità e dell’ inettitudine . Nell’Inferno soprattutto si coglie , mirabilmente descritto, il senso di impotenza che nasce dalla paura dell’abbandono dinnanzi all’incombere della morte. La potenza predittiva dell’immagine del locus tristis ci restituisce, con forza , la visione lucida del dramma che oggi si consuma nella solitudine e nell’isolamento dei contagiati dal Coronavirus. Un pericolo questo sempre in agguato che trasforma le corsie degli ospedali in luoghi di sofferenza e di afflizione e dove si nega al malato persino l’ultimo conforto.
Victor Hugo nella poesia iniziale della raccolta Les voix interieur, scriveva: “ L’enfer c’est la vie, e l’inferno entrato davvero nelle nostre vit, ha trasformato le nostre città in un’unica Dite, dove il male, debordato dalle mura ferrigne e arroventate si riversa ovunque, senza tregua.
Ma nella Commedia dalla condizione più dolorosa scaturisce la spinta verso il rinnovamento, ed è da questo mutamento di prospettiva che è dato cogliere il senso più profondo e consolatorio della messaggio dantesco. Esso si fa voce di speranza e profezia di cambiamento, ci guida alla riscoperta del senso della nostra vita , imposta un nuovo umanesimo che orienta l’uomo alla ricerca di se stesso. In questa rinnovata visione di cui ognuno di noi è parte integrante, si ricompongono i valori di una nuova comunità che finalmente uscita dalla “selva oscura e aspra” vedrà ristabilito l’equilibrio tra felicità e dolore e tra vita e morte.
di Ambra Varon