Dare voce, ieri come oggi
Scritto da redazione il 4 Dicembre 2020
Quando voglio qualche pungolo che mi possa dare una nuova spinta, apro “Lettera a una professoressa”: sono sicura che ogni volta mi dirà qualcosa. L’ultima frase che mi è capitata sotto gli occhi è questa: “ Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua ” diceva don Milani. La sua affermazione, in quegli anni, era rivolta ai figli dei contadini troppo spesso esclusi dall’accesso all’istruzione. Oggi calza a pennello per chi è ultimo nella scala sociale; e troppo spesso, tra questi ultimi, ci sono i figli di immigrati che ci ritroviamo in classe. Ho usato l’espressione “ci ritroviamo” non a caso. La scuola italiana è troppo spesso impreparata alla reale inclusione di questi alunni, con le armi spuntate, Per lo meno io, da docente, mi sono sentita così. Quali strategie adottare con questi nuovi italiani? Come farli diventare padroni della lingua, farli giungere ad una reale integrazione e permettere loro di costruirsi una vita piena e soddisfacente? Se vogliamo evitare ghettizzazioni e chiusure, radicalizzazioni e perenne senso di estraneità, occorre davvero ripensare al modo in cui, ogni giorno, cerchiamo di arrivare agli alunni non italofoni che affollano le nostre classi.
Credere che basti la semplice esposizione alla lingua e l’interazione con i pari (un’interazione che, troppo spesso, è lasciata alla buona volontà dei singoli alunni madrelingua e alle loro famiglie) è quanto mai ingenuo; occorre trovare un ponte per poter davvero favorire un apprendimento significativo e duraturo. Tutte queste osservazioni possono a mio avviso essere riferite anche alla realtà dell’insegnamento dell’italiano agli adulti: in tale ambito assumono addirittura ancora più spessore. Se infatti un preadolescente ha davanti sé un maggior lasso di tempo per integrarsi e costruire un proprio progetto di vita, un adulto, dalla mente meno plastica e con un background più rigidamente strutturato, vive con più urgenza questa necessità. E che dire delle compagne di vita dei tanti immigrati che sono entrati a far parte della nostra nazione? Spesso ho condiviso con loro l’esperienza della maternità, declinata in vari ambiti: dai contesti di cura (ospedali, pediatri ecc.) a quelli scolastici, quando i rispettivi figli frequentavano la stessa classe.
Le ho viste riunirsi in gruppo per le vie del paese parlando animatamente la loro lingua natìa, a volte le ho intuite sole tra le mura di una casa, limitate nei movimenti da una cultura ancora troppo patriarcale, ma anche dalla mancanza di strumenti per poter interagire in modo efficace al di fuori di quello spazio angusto. Insomma, davvero poter dare un nome a quello che circonda e quello che sentiamo dentro è la più grande delle libertà che possiamo concedere ad un Uomo. La scuola non può rispondere “assente” a questo importante appello.
Simona Lovati