L’importanza di un percorso educativo sul potere dei social
Scritto da Adele D'Angelo il 21 Novembre 2020
Lo sviluppo di una piena cittadinanza digitale.
Un paio di anni fa mi imbattei in un libro, scritto da Saverio Tommasi, giornalista, reporter, di una seguitissima testata giornalistica on line.
Mi colpì il titolo: “Siate ribelli, praticate la gentilezza!”. Un libro che andrebbe letto in ogni scuola, in ogni luogo istituzionale, in ogni casa, famiglia.
Ciò che scrivo non è certamente riferibile ad una sponsorizzazione dello scritto, ma scaturisce da una constatazione oggettiva di quanto, in questo periodo più che mai, sta accadendo: una bulimia di volgarità, sfoghi rabbiosi, tensioni lessicali che emergono in ogni dove, maggiormente sui “nuovi” canali di comunicazione: i social.
Per quanto inizialmente fossero esclusivamente ad appannaggio dei giovani, sfortunatamente non è più così. Non possiamo certamente intervenire sui processi educativi e di crescita di persone ormai avanti negli anni, ma credo che molto si possa fare per sanare una deriva culturale e sperare in un recupero di modi nelle generazioni “touchscreeen”.
Sono cresciuta in una famiglia in cui più delle parole erano gli esempi ad indicarci la rotta. Oggi, purtroppo, ci siamo abituati ad un certo tipo di comunicazione, fatto di linguaggi offensivi e poco adatti a qualsiasi tipo di contesto. Voltiamo pagina senza battere ciglio quando, anche un personaggio più o meno pubblico, a volte ci offre le peggiori volgarità. Un tempo era la piazza il luogo di confronto democratico e di crescita culturale. Nel ventunesimo secolo, il mondo è un grande palcoscenico dove realtà e finzione si mescolano senza soluzione di continuità.
Fino a quando la partita si gioca al di fuori del nostro piccolo ambito, tutto sembra lontano anni luce e, ponendoci come osservatori esterni, siamo pronti a puntare il dito sul mondo dell’istruzione e/o sul mondo genitoriale. Da insegnante e genitore rifletto spesso sulla effettiva esistenza di una linea di demarcazione tra i due mondi, quello della scuola e quello della famiglia. Dove finiscono le responsabilità dell’uno e dell’altro nel processo educativo e di costruzione dei valori e dei principi di un bambino, di un ragazzo, di un adolescente?
In un attimo ritorno sui miei passi e con sempre maggiore convinzione rispondo che è proprio nella ricerca di una linea di confine che si sbaglia. Educatori, insegnanti e genitori dovrebbero lavorare insieme per il bene comune più prezioso: un figlio, uno studente. Invece, nell’era dell’eccesso di scambi di comunicazione (social), siamo più divisi e ostili verso il prossimo e soprattutto più soli. Dobbiamo fare uno sforzo oggi, adesso, per entrare nei cuori dei nostri ragazzi attraverso i loro nuovi linguaggi. Perché, rivolgendoci a loro, possiamo sperare di invertire la rotta.
Sono convinta che la tecnologia possa essere un grande supporto per la costruzione di ponti di pace e di solidarietà. Perché se si è passati felicemente dalla penna d’oca alla biro, non vedo perché si debba guardare con orrore e sospetto il passaggio alla tastiera. Semmai manca l’acquisizione di un vero e proprio percorso educativo sul potere dei nuovi canali di comunicazione. È qui che bisogna intervenire unitamente ad un recupero di esempi da seguire che pongano il dialogo, la solidarietà, il senso civico, l’amicizia, la famiglia quali valori fondamentali della vita.
Come aprire questi varchi?
Stimolando il confronto sereno tra persone, offrendo opportunità di lavorare a progetti comuni sui più svariati temi. Tornare ad incontrarsi e lasciare alla tecnologia il suo vero ruolo di facilitatore di questi processi virtuosi. Da architetto rivedo nei disegni a china il fascino del tratto manuale. Tuttavia, non posso negare che oggi un “rendering” ci consente di avere una visione del progetto assolutamente più realistica ma altrettanto affascinate. Il software non toglie nulla alla creatività del progettista! Insomma, credo fortemente che il problema non siano le tastiere, ma l’involuzione comunicativa e la solitudine che si nasconde dietro ad un mondo fatto di veloci e brevi “like”.
Apriamo varchi di riflessione con i ragazzi, nelle scuole, accompagnati da docenti e da genitori il più delle volte ostili e aggressivi, solo perché persi nell’incapacità di gestire un figlio che parla un’altra lingua. Lasciamoci guidare nel loro mondo, tenendoli per mano, ma stabiliamo noi la rotta. Abbiamo il dovere di intervenire, in punta di piedi, ma con assoluta determinazione e convinzione. Abbiamo l’urgenza di padroneggiarle la c.d. comunicazione digitale e di invertire la rotta. La tecnologia deve essere utilizzata per arricchirci, per offrirci opportunità di crescita, per connettere menti e sviluppare virtuosismi.
Non dimentichiamo, poi, che le competenze informatiche dei cosiddetti “nativi digitali” sono assolutamente scarse e, la lacuna più grave, resta la sicurezza che li rende maggiormente vulnerabili ed esposti ai rischi di “cyber-bullismo” e “stalking” . La colpa però non è dei ragazzi, semmai di noi adulti.
Evidentemente, fidandoci eccessivamente delle loro presunte capacità innate, li abbiamo lasciati soli a gestire il proprio percorso di acquisizione di una piena cittadinanza digitale. Si tratta di un’abilità così importante da non poter essere esclusa dalla scuola dell’obbligo. Va costruita con l’aiuto di tutti: dei docenti, dei genitori e, per alcuni aspetti specifici, con il supporto di esperti esterni. E quindi, sì, la generazione “touchscreen” ha ancora bisogno dell’aiuto degli educatori e, la prima regola da sottoscrivere è: praticare la gentilezza.