Per una scuola che rompa…
Scritto da redazione il 4 Agosto 2020
Lockdown, un termine inglese ormai entrato nel vocabolario corrente di ognuno di noi, significa “confinamento” ma che, letto in italiano, riecheggia il nostro recente passato fascista, con la sua determinazione a volere eliminare tutte le voci dissonanti in grado di minacciare l’idea di uno stato perfetto e sicuro, in cui si poteva, addirittura, “dormire con le porte aperte”. Durante il ventennio sembravano infatti scomparse tutte le forme di povertà, grazie anche alle provvidenze economiche messe in campo da Mussolini. Ma era davvero così?
La storia ha smentito quel falso mito. Sappiamo bene, infatti, che il “confinamento” aveva sì ragioni politiche per espressa volontà del duce, ma anche economiche, come nel caso dei grossi flussi migratori, favoriti dallo stesso stato fascista per diluire la crisi economica causata dalle politiche di guerra. E oggi, quali forme di marginalità si sono create o sono state inasprite da questo nuovo concetto di “confinamento”? Si è appena concluso a Palermo il seminario “14 settembre: quale scuola riapriamo?” – rigorosamente on line – organizzato dal C.I.D.I. (Centro Iniziativa Democratica degli Insegnanti) del capoluogo siciliano a cui hanno partecipato un centinaio di persone fra dirigenti scolastici, docenti e pezzi del terzo settore, tutti accomunati dalla preoccupazione non solo logistica, ma anche qualitativa per una scuola la cui riapertura è già alle porte. L’incontro, coordinato dalla presidente Valentina Chinnici, ha fornito l’occasione per interrogarsi su che tipo di scuola ci attenderà il prossimo 14 settembre, data fissata nazionalmente dal Miur, e che vedrà il ritorno fisico di studenti e personale scolastico all’interno di edifici rimasti innaturalmente silenti per parecchi mesi.
E mentre nel mondo della scuola si sta ancora col metro in mano per capire come gestire in sicurezza questa nuova alba, ci si è forse dimenticati dei tratti salienti del sistema di istruzione e formazione: i saperi, i metodi, le relazioni, le alleanze educative col territorio e il ruolo degli enti locali, proprietari degli edifici scolastici. E ancora, i rapporti con le famiglie in un momento in cui il corpo docente ha di fatto ceduto la sovranità del proprio ruolo, contribuendo a opacizzare confini già resi fin troppo permeabili dall’uso acritico dei social e della rete, finendo per livellare verso il basso l’asticella delle competenze professionali. E’ inutile negarlo: le scuole italiane sono nel caos. Questi mesi di inerzia forzata – almeno per quanto riguarda le attività didattiche in presenza – non sono bastate a capitalizzare questo tempo sospeso per sanare i mali storici delle scuole italiane. L’insufficienza di locali idonei all’apprendimento, infatti, hanno aggiunto carenze su carenze. Può sembrare “solo” un problema tecnico, di edilizia scolastica, ma non è così. L’insufficienza e l’inadeguatezza di locali pensati e progettati per l’educazione, l’istruzione e la formazione delle nuove generazioni lasciano il Re nudo, evidenziando quanta scarsa importanza abbia, per lo stato italiano, un settore cruciale per la sua stessa sopravvivenza.
Le macerie che la pandemia ha lasciato dietro di sé, sono i resti non di una mala gestione, ma di una vera e propria assenza da parte delle istituzioni statali, risalenti a ben prima dell’arrivo del Covid-19; sono macerie che dicono dell’incapacità progettuale e di investimento sul “capitale umano” dell’Italia – il patrimonio più cospicuo di ogni nazione – ancora quasi del tutto impegnata a fronteggiare la crisi economica vista come preminente sulla crisi educativa. Le conseguenze sono ancora tutte da verificare, come sottolineato dall’assessora alla scuola del Comune di Palermo, Giovanna Marano, intervenuta nel corso del dibattito. Non basta che la scuola riparta in sicurezza: “Sono necessari anche parametri di comfort”, soprattutto quando le aule e gli edifici scolastici sono destinati alla fascia 0-6, davvero quella più trascurata anche dai vertici ministeriali, sebbene di importanza vitale per il Welfare State (concetto caduto in disgrazia già da svariati anni).
Il pericolo, ha evidenziato ancora Giovanna Marano, è che nonostante lo straordinario sforzo compiuto da docenti e dirigenti con la Dad, è che le “disuguaglianze, aumentino”. Il divario che si prefigura ”non è solo digitale” in quanto i più penalizzati dalla sospensione forzata sono stati gli studenti più piccoli, privati da un momento all’altro delle loro routine, di quel complesso di relazioni sociali che solo nella scuola fisica trovano cittadinanza, e che costituiscono quell’orizzonte di sicurezza che sta alla base del ben-essere di ogni individuo. Il contrasto alle povertà educative richiederà sforzi maggiori, dedicando “più attenzione alle nuove diseguaglianze che sono nate o nasceranno nel corso dei prossimi mesi” – ha detto ancora l’assessora. Una preoccupazione condivisa anche dai dirigenti scolastici intervenuti nell’incontro dei giorni scorsi.
Quel che anche prima della pandemia non è stato ancora colpevolmente compreso dai vertici statali è che la partita contro la dispersione scolastica, si vince proprio a cominciare dalla cura dedicata alla prima infanzia. Una partita che l’Italia deve assolutamente vincere, se vuole evitare di sostenere costi sociali altissimi con ricadute economiche pesanti per tutti i cittadini italiani. Un processo, come emerge da autorevoli fonti statistiche, già pericolosamente avanzato. E invece gli “spazi bianchi” lasciati incustoditi dalle istituzioni sono state colmate, in talune circostanze, dall’iniziativa volontaria individuale: è il caso, per esempio, di padre Ugo Di Marzo, parroco della chiesa Santa Maria Santissima delle Grazie e docente in un istituto comprensivo del quartiere Sperone di Palermo, periferia sud della città. Don Ugo ha reso infatti disponibili i locali parrocchiali, coadiuvando la scuola nella distribuzione dei tablet, grazie ai quali 60 famiglie del territorio hanno potuto accedere al sistema educativo e di istruzione della scuola pubblica statale.
Non possiamo più assistere a fenomeni di esclusione, alla presenza di “periferie sociali” – ha detto padre Di Marzo nel suo intervento, citando il Santo Padre. E non dimentica di ricordare la figura di Don Pino Puglisi, prete di Brancaccio ucciso per la sola colpa di voler portare “Bellezza e cultura” in uno dei quartieri dove la mafia comandava e comanda, anche se con sacche minori di consenso rispetto al passato. Padre Puglisi ha pagato con la vita la sua ostinazione a volere una scuola media in quel quartiere, dimostrando a chi non ha ancora occhi per accorgersi della realtà, che è la scuola l’arma vincente contro ogni forma di povertà, materiale e spirituale. Punta sull’importanza della sinergie delle forze in campo, padre Ugo Di Marzo, in cui scuola, parrocchie e rappresentanti del terzo settore collaborino per superare la crisi educativa così tanto sottovalutata a livello nazionale. Dobbiamo dunque essere preparati ad affrontare il pericolo di una nuova emergenza che sta sempre dietro l’angolo “e questa volta – conclude il parroco – non possiamo essere impreparati”.
Serafina Ignoto